A cura della Redazione

Ci sono città che per storia, tradizione, collocazione geografica e indole degli abitanti sono considerate degli angoli di paradiso, dei posti speciali, fortunati per chi ci è nato  o da scegliere per viverci.

Sono le città semplici. Dove la medietà è la categoria di misura che ne organizza ogni aspetto. Dove piove per rinfrescare l’aria, per temperare l’afa, per far crescere i gerani nei vasi sui balconi sempre pieni di colori. Dove il reddito medio è di tutto rispetto e tutti si rispettano. O, almeno, così si mostrano nelle apparenze della vita sociale. Certo non mancano le differenze, ma senza ostentazioni. Tutto è medio. Tutto è armonia. Sereno è l’animo di chi vive nelle città semplici. Può decidere la sua strada: partirsene o restare. Nelle città semplici bastano due occhi e credere in se stessi. Le file sono rispettate, come buona parte dei regolamenti. Nei limiti umani degli umani, ognuno è uguale all’altro. Sì, qualcuno è un po’ più uguale. Ma qualcuno. In genere è gente fuori portata. Ricconi venuti da fuori, quelle poche famiglie che identificano il posto. Per il resto si corre quasi alla pari. Non c’è bisogno di annusarsi alla partenza, scartare, conoscere fantini e allibratori, foraggiare ippodromi. Nelle città semplici, agli incroci – anche senza vigili – tutti sanno cosa fare. Nelle città semplici si sorride spesso, anche se qualcuno dice che sono finti quei sorrisi. Ma, in fondo si sa, la finzione e l’ipocrisia sono le funzioni sociali indispensabili a fare semplici le città. Semplici ed ordinate: dal piano urbanistico allo skyline.

Dalle città semplici anche le tragedie si tengono lontano. Sì, giusto qualcosa per rendere plausibili le statistiche e mantenere  una notizia in cronaca per più di qualche giorno. Ma poca roba!

Ci sono città che per storia, tradizione, collocazione geografica e indole degli abitanti sono considerate dei luoghi indecifrabili. Misteriosi. Solari. Divertenti. Cupi. Enigmatici.

Sono le città difficili! Dove la contraddizione è la grammatica di tutte le cose. Dove, quindi, tutte le cose sono smisurate e l’eccesso è l’unico modo di affrontare la vita senza esserne stritolati. Perché nelle città difficili la vita corre sempre troppo veloce per andarvi a pari. Nelle città difficili non si può che inseguirla, la vita. E’ questa l’unica condizione possibile, magari saltando giù dal carro dell’anima che si fa sempre più gravosa, che si riconosce come sempre più sconfitta. Nelle città difficili dove il troppo è la misura di ogni aggettivo, quasi  non si avvertono le differenze e, anche se il clima è mite, il tempo sa essere torrido o glaciale come la gente che l’abita, che si accende per un nonnulla e resta di ghiaccio nell’indifferenza dello scempio. Perché nelle città difficili, belle e maledette come la mia, tutti fanno affari con tutti nella democrazia del compromesso. E’ la logica dell’interesse personale a regolare i rapporti sociali. Perciò nelle città difficili si sceglie di non scegliere. Così l’edilizia popolare è quotata in borsa, ma la borsa è solo per poche persone, quasi sempre le stesse. Perciò, nelle città difficili, la democrazia è solo apparente e si riesce a individuare in 3 km lineari un nord e un sud, a distinguere “un fiore all’occhiello” da un vestito rivoltato dalle asole rinacciate. Perché è vero, le città difficili, belle e disperate, come la mia, hanno angoli bellissimi e zone che sembrano bombardate, come un lancinante viaggio dell’anima, si va dai fiordi a Ramallah. Eppure ognuno evoca gli splendori del passato, magari mitizzati e deformati (l’opulenza dei pastifici, una classe operaia “in paradiso”… ) o solo sognati (una vita mondana da costa azzurra). Perché anche nelle città difficili, quelle belle, disperate e maledette, come la mia, non si smette mai di sognare.

E qui sta il punto perché le città difficili, come la mia, offrono sempre alternative. Alcune pericolose per quanto allettanti. E invece non ce ne dovrebbero essere. Si dovrebbe scegliere da che parte stare: la rettitudine o il compromesso, l’onestà o il tornaconto personale a tutti i costi, il valore dell’umanità, dell’essere o quello del possesso delle cose. Perciò nelle città difficili sono – siamo - tutti un po’ colpevoli: chi vede e non denuncia, chi finge di non vedere e chi fa ciò che è meglio non vedere. Sarà per questo che le città difficili, belle e struggenti come sanno esserlo solo quelle che si aprono al mare, nel mare trovano conforto, ne sanno cogliere i segni ed interpretarne l’umore. Sanno riconoscere quel brivido di freddo che corre sull’acqua, all’imbrunire, qualunque sia la stagione, come l’annuncio eterno del suo potere, ogni volta a ricordare che è lui a decidere se farsi domare e che c’è un limite al sentire, un limite a chi, proprio come lui può dare, ma può anche prendere. Come al sole che lo accompagna all’alba, il primo che l’acqua riflette. Anche d’inverno avvampa a ricordarci il suo potere, perché le città difficili hanno nel loro destino una vocazione tragicamente grandiosa. Nel loro intemerato coraggio che è in parte follia, la loro sfida la lanciano anche alle leggi della natura e a quelle degli uomini. Così nelle città difficili si muore per uno sguardo, per una parola. Neanche per un sì o per un no, si uccide, ma per un silenzio indifferente, per un lampo d’orgoglio, per un fremito di rabbia. Nelle città difficili si arriva all’orrore di madri che allevano i proprio figli perché uccidano o vengano uccisi. Perché siano duri e determinati sino alla ferocia. Madri che aspettano un corpo steso sull’asfalto e un volto sul vetro di un auto che corre via per urlare il proprio amore. Tutto è senza misura nelle città difficili, anche i sentimenti. Si urlano. Come gli odori, le parole, la gioia, il dolore. Sarà anche per questo che le città difficili hanno un destino tanto tragico. Ma solo se si va contro il destino c’è la salvezza del futuro o, almeno, la sua certezza.

Belle e maledette sono le città difficili e forse scontano questa condanna: di aver fatto scialo di tanta bellezza, ostentando uno sterile orgoglio di appartenenza. Perché se si amasse veramente non si arriverebbe a deturpare nulla, men che meno per godere di quello splendore assegnato dal caso.

Come una terribile nemesi, le tragedie si abbattono sulle città difficili. Come una pena da espiare, necessaria e salvifica a riscattare un ignoto eppure accettato peccato originale. La memoria delle città difficili è costellata da tragedie. Ma nessuna come la mia, quella in cui sono nato e cresciuto, seppure con intervalli di assenza, troppo brevi per dimenticarla, troppo lunghi per sfuggire al destino di non star bene più da nessuna parte. Tante tragedie a intervalli quasi regolari si sono succedute come se avesse bisogno – di tanto in tanto - la nostra città di essere scossa e richiamata ai valori umani della solidarietà, della fratellanza, del rispetto  del bene comune, dell’amore. Quasi una sorta di attenzione particolare da parte di un’entità superiore per non farci perdere del tutto: così si spiega la lunga teoria di una città martoriata come la nostra: lo scoppio del ’46, il tragico 22 ottobre del 1972, la strage di Sant’Alessandro, l’assassinio di Rosa Visone e del maresciallo D’Alessio appena due anni prima; i tanti, troppi, morti ammazzati, le tante vittime innocenti. Infine… il boato silenzioso di polvere e morte, ancora un segnale dal destino della nostra città bella e disperata. Definitivo. Assoluto. Come i sogni che tardano ad avverarsi. Come gli amori non corrisposti, inconfessati per pudore, per timore, viltà. o, forse, solo per troppo amore.

E’ una città la nostra che sembra aver convissuto da sempre con la morte al punto che anch’essa nell’ultima tragedia le ha voluto usare una beffarda cortesia, nella restituzione dei corpi, lasciando per ultimi i bambini. E con loro, la speranza.

Verrà il tempo del giudizio che servirà a misurare la miseria degli uomini, ma adesso è sollievo pensare che sia stata la bellezza del paesaggio a perderli, che il silenzio immenso del mare ne abbia colto i pensieri per custodirli. E il cielo gli sguardi chiusi a tenerli lontano dal male.

E così che Marco e Francesca e Salvatore diventano solo dei nomi, che potrebbero assumere il volto di qualsiasi dei nostri figli. Perché la domanda è: “Ma si può morire per troppo amore o per eccesso di bellezza?”.

Nelle città difficili può succedere. E’ successo. Ma non è una consolazione. Restano le colpe degli uomini e la pietà di ognuno che tutte le riscatta, ma senza dimenticarle.

Questo, almeno, l’augurio. Questo il dovere di chi resta, l’omaggio e l’impegno verso chi, sognando il mare, vi ha fatto ritorno, in un’alba d’estate.  

FELICIO IZZO

Dirigente Istituto Giorgio de Chirico - Torre Annunziata

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