A cura della Redazione
Chiamiamola pure seduta di autocoscienza: la visione di Fortapasc non è il risveglio da un brutto sogno; in quel film ci siamo tutti, con le nostre responsabilità, le nostre connivenze, i nostri silenzi, la nostra rassegnazione, anche la nostra rabbia mai esplosa. Dividere il mondo in due categorie, i buoni e i cattivi, è troppo semplicistico e fa torto a tutti. Soprattutto a chi non c’era o era troppo piccolo per ricordare ora che tempi fossero quelli. Tremilioni e mezzo di italiani hanno visto lunedì in televisione il lavoro di Marco Risi, se si aggiungono le decine di migliaia passati attraverso le pay tv nei mesi scorsi, si raggiungono cifre impensabili per le sale cinematografiche. A loro resta il ricordo di una pellicola ben girata, di una interpretazione notevole, di una storia disgraziata. Il dettaglio che tutto si sia svolto a Torre Annunziata colpisce solo chi con questo nostro microcosmo è venuto in contatto. Chi li ha vissuti quei tempi, invece, ha sentito la schiena percorsa dagli stessi brividi di terrore, venticinque anni dopo. Eppure Fortapasc è solo un film, una storia liberamente ispirata alla vicenda (vera) di Giancarlo Siani, unico giornalista ucciso dalla camorra. Un primato ignobile che ha impedito a un ragazzo di realizzare il suo sogno assolutamente normale di una vita da giornalista, non da missionario. Una vicenda romanzata che, per esigenze narrative, stravolge la realtà quando attribuisce al capo di Giancarlo atteggiamenti macchiettistici e ragionamenti – come quello sui giornalisti impiegati – che da vero cronista d’assalto non avrebbe mai potuto concepire. Oppure quando macchia la figura di un giudice che la sua guerra alla camorra l’ha combattuta con gli strumenti che aveva a disposizione. Nessuno vorrebbe che quei giorni tornassero, che si respirasse di nuovo quell’aria mefitica di falso benessere, dove la ricchezza veniva dispensata dai signori del malaffare, ma era ricchezza effimera che svanì appena lo Stato decise di affinare la lotta al contrabbando. Più o meno quello che è accaduto qualche anno fa quando l’Esercito è dovuto arrivare a dar manforte a carabinieri, polizia e guardia di finanza per ripulire Torre, ridotta a supermarket della droga. Da quell’inferno sembrava che fossimo usciti, ma è mancato lo spunto finale, l’aiuto che avrebbe dovuto innescare la miccia della rifondazione completa. E oggi viviamo una stagione di nuova precarietà. Nessun paragone può essere fatto tra le due epoche: sono diversi gli attori, le loro storie. E vaccinati siamo anche noi che saremo diventati più smaliziati e meno creduloni, ma ancora continuiamo a coltivare la critica passiva: non ci va bene nulla, ma niente facciamo per cambiare. Il rischio del ritorno a Fortapasc è tutto qui, dentro di noi, non fuori. MASSIMO CORCIONE