A cura della Redazione
Le ha viste davvero tutte, don Vincenzo. Cento anni di Torre Annunziata passati per le trafile in bronzo che trasformano - oggi come ieri - il grano duro in pasta diventata inimitabile. Un secolo, anzi due, attraversati con lo spirito realista di chi sa che si costruisce con la fatica e si rifinisce con la fantasia. Dal Regno d’Italia alla prima e alla seconda Repubblica, dalla città operaia a quella del terziario poco avanzato, dai vecchi guappi uomini d’onore alle piccole vedette della delinquenza organizzata che gli sfrecciavano davanti al pastificio sui motorini geneticamente modificati, dai piccoli trucchi per far pesare di più i carichi di semola alle frodi alimentari: una piccola storia d’Italia di cui Vincenzo Setaro è stato attento osservatore. Pastaio in Torre Annunziata: una volta era titolo più prestigioso di un cavalierato, racchiudeva insieme l’arte, l’industria e il commercio, una sintesi perfetta di ciò che doveva essere e poi non è stato. L’economia che non c’è stata o che è miseramente fallita, i cento pastifici ridotti a uno, il suo appunto, mentre altrove, a Gragnano per esempio, a fatica si sopravviveva per poi avere recentemente un boom a noi negato. Perché sia successo, ho provato a chiederlo tante volte a don Vincenzo Setaro, da quando, ragazzino, accompagnavo un mio zio rappresentante di grano e semola, uno dei pochi che avevano conquistato la sua fiducia: la risposta non è mai stata tenera nei confronti di chi è caduto nel corso degli anni, come se la fortuna finanziaria per molti si fosse trasformata in diabolica tentazione a ostentare piuttosto che in fortissimo incentivo a insistere nell’iniziativa industriale. La sua vita, ora che si è serenamente conclusa, è lì a testimoniare quanto abbia avuto ragione: sua l’unica etichetta superstite, suo soprattutto il merito di portare nel mondo il nome di Torre Annunziata su confezioni ed etichette che affascinano solo a guardarle. E sua anche la fortuna di aver trovato, lui senza figli, tre eredi non solo nostalgici cultori del passato, ma attivi imprenditori del Duemila. Non so se abbiano anche avuto l’accortezza di raccogliere le memorie di don Vincenzo: sarebbero meglio di un libro di storia, ricche di aneddoti più di un romanzo, avvincenti quanto una storia di mirabili avventure. Ora che un altro erede di una famiglia di pastai sta coltivando in tutta segretezza l’idea di riaprire il pastificio del nonno, credo sia giunto il tempo per fermare la storia, per dedicarle uno spazio fisico nel quale raccogliere simboli e testimonianze di un’arte forse non recuperabile come grande industria, ma riciclabile così com’era nata, come impresa familiare. Il segreto più semplice per arrivare a cent’anni. MASSIMO CORCIONE (Dal periodico TorreSette del 1 luglio 2011)