A cura della Redazione
150 anni ieri. Un secolo e mezzo di vita in comune tra italiani che in origine parlavano addirittura un’altra lingua, studiavano su libri diversi, avevano del passato e pure del presente una visione quasi opposta. Li univa il futuro, la speranza di una vita finalmente da Nazione. Come eravamo 150 anni fa, qui a Torre Annunziata? Innanzitutto eravamo meno, poco più di un terzo di quanti siamo ora. Eravamo anche diversi, molto diversi da chi ci circondava. Oggi la nostra diversità è un limite, la resa che sembriamo dichiarare ogni giorno è un ostacolo alla crescita, alla rimonta rispetto ai nostri vicini. Allora no, eravamo in vantaggio, molto più avanti. Padroneggiavamo le macchine, ospitavamo i migliori tecnici d’Europa, conoscevamo il concetto di fabbrica. Non eravamo ricchi, le fonti di ricchezza erano in poche mani e nessuno sospettava che gli eredi di quelle famiglie allora illuminate avrebbero dilapidato nel peggiore dei modi i loro patrimoni (finanziari e d’esperienza). La ricostruzione che Vincenzo Marasco propone è una radiografia precisa e insieme un racconto appassionato di un mondo dimenticato. Non è nostalgia, ma la nostra storia. Spesso misconosciuta. Sapete qual è l’indizio della nuova ignoranza? Nessuno ha evocato quel tempo lontano come il paradiso perduto, ricorrendo a semplificazioni storiche sui danni procurati al Sud dal processo di unificazione nazionale. Solo qualche decennio fa avremmo assistito a discutibili operazioni di revisionismo, con l’esaltazione del Regno delle due Sicilie, dei Borbone e di una folcloristica corte. 150 anni oggi. Che cosa è rimasto di quel tesoro? Poco, pochissimo, perfino l’archeologia industriale ha lasciato poche tracce. L’itinerario proposto tempo fa da Lello Ricciardi alla ricerca delle nostre origini pastaie testimoniò la trasformazione della città, ma anche la negazione della tradizione, arte di cui siamo purtroppo diventati maestri. Come se non avessimo cura per la nostra memoria. Di ricordi non si campa, d’accordo, ma aiutano a progettare meglio, sviluppando le vocazioni naturali ed evitando le contaminazioni invece innaturali. Passato e futuro si fondono nel Porto, che riveste un ruolo centrale non solo nelle cartoline (sempre più rare) che riproducono la città vista dal mare. Allora, nel 1861, erano gli anni in cui partivano i bastimenti, ora le navi sono più moderne, ma visitatrici più sporadiche delle nostre banchine. Soprattutto non muovono squadre di scaricatori per caricare e scaricare merci. Questa è la differenza: il porto deve tornare a essere occasione di lavoro, le cinquecento barche ormeggiate lungo i pontili esigono manutenzione e servizi che Torre Annunziata non riesce a garantire. Ecco la parola alla quale possiamo aggrapparci: servizi. Dietro il termine si nasconde una prateria che attende solo di essere occupata. Discorsi eterni che migliaia di volte mi è capitato di fare con Giovanni Gurgone, italiano vero, che ha reso tutti noi più soli con la sua morte improvvisa. Era innamorato di Torre Annunziata, come lo siamo tutti noi. Aveva scelto di restare, attraverso il volley ha fatto molto per la sua città, sicuramente avrebbe voluto fare molto di più anche attraverso le sue conoscenze professionali. Avrebbe meritato di campare almeno altri 150 anni. Per sé, per la sua famiglia, per Torre. MASSIMO CORCIONE