A cura della Redazione
L’impressione non è nuova, ma si rafforza ogni volta che l’occasione si ripresenta: l’idea che gli altri, quelli dell’altra Italia, hanno di noi è trasfigurata, paragonabile a una realtà lontana, misteriosa ma incomprensibile. Qualche giorno fa l’ultima conferma, ascoltando alla radio un intervento di Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, lo scrittore che ha sollevato il velo su un mondo nel quale noi torresi siamo immersi da sempre. Purtroppo. Le telefonate che arrivavano da ascoltatori del nord erano sì permeate da un misto di meraviglia e di indignazione, ma denunciavano anche un preoccupante distacco. Si parlava della nostra condizione come si fa della fame in Africa: si sa che esiste, tutti la considerano profondamente ingiusta, ma nessuno riesce a far molto. Saviano veniva trattato come un missionario, come chi ha consacrato se stesso a una causa nobilissima e impossibile da risolvere. Invece è soprattutto un testimone coraggiosissimo di un malaffare che è diventata malattia endemica. Una risposta, tra quelle fornite ai suoi interlocutori, mi ha colpito: sono contento di aver scritto Gomorra - ha detto - per il movimento d’opinione che ne è scaturito, ma se avessi saputo che avrebbe trasformato la mia esistenza in vita da recluso, forse avrei evitato. Non è una resa, questa, ma la triste considerazione di uno come noi, nato e vissuto tra le nostre contraddizioni, che nonostante tutto non si sente un eroe. Qualche mese fa, Fabio Cannavaro, capitano della nazionale di calcio, fu investito da feroci polemiche per aver detto in un’intervista che Gomorra non aveva reso un favore all’Italia: più o meno aveva definito il libro-denuncia una pessima pubblicità. Il concetto era effettivamente troppo forte, pure quella pubblicità avrebbe potuto aiutarci a estirpare il male che ci opprime, ma certamente i racconti ospitati sulla pagina (e soprattutto le scene del film successivo) hanno determinato un nuovo distacco dal resto del Paese. Siamo guardati come una specie rara, incapace di reagire, assuefatta a un potere criminale che ci tormenta e dal quale non riusciamo ad affrancarci. Anche questa lettura è un po’ superficiale: è impossibile riassumere tante posizioni individuali in un solo stereotipo, la rassegnazione resta però una preoccupante costante. Il senso di ribellione non ce la fa proprio a sfondare il muro che ancora ci divide dall’altro mondo. C’è una rapina? E’ solo un incerto del mestiere per chi da più di mezzo secolo ha scelto il commercio come propria attività. C’è il mare sporco? Siamo naturalmente vaccinati, raro esemplare di popolazione immune rispetto alle infezioni. Le cose in città non vanno come dovrebbero andare? Cambiare non serve, quelli che comandano sono tutti uguali. Così non si può andare avanti, anzi non si va da nessuna parte. Finiremo per essere sempre più lontani, più abbandonati, più soli. Di commiserazione non si vive, si muore. MASSIMO CORCIONE