A cura della Redazione
Dico subito che non credo assolutamente all’equazione: successi sportivi uguale successi di una città. Il Napoli di Maradona non produsse nessun rinascimento napoletano e, nel nostro piccolo di Torre Annunziata, la promozione in serie B non innescò alcuna rivoluzione nella vita quotidiana cittadina. Ecco perché penso che la retrocessione del Savoia non sia un segno di decadenza che tocca cittadini e tifosi. Purtroppo non possiamo essere noi artefici delle vittorie e delle scelte che avrebbero potuto determinarle. Così come è pura utopia la suggestione dell’azionariato popolare, della proprietà suddivisa in migliaia di micro-quote: una società di calcio non si gestisce in assemblea permanente. Occorre un investitore principale, un padrone che – per motivi che ancora mi sfuggono – decida di mettere mano al portafogli per finanziare il sogno di una città. E’ la premessa indispensabile perché si costruisca una macchina vincente. Trovarne uno, ora, disposto a scommettere su Torre Annunziata e il Savoia è un’impresa alla quale siamo tutti chiamati. Qui non esistono riccastri e l’illusione di un benefattore va subito rimossa: l’unica cosa da pretendere quando qualcuno verrà a proporsi è la chiarezza. Dichiarare i propri obiettivi, senza gli equivoci degli ultimi pretendenti che nascondevano sempre un disegno segreto. Il processo a chi ci ha trascinati in questa situazione è già cominciato, la sua colpa principale è stata l’incoscienza: essersi buttato in un’avventura molto più grande delle possibilità economiche che poteva destinare allo sfizio. Il calcio non è un affare che rende ricchi, regala popolarità, ma può azzerare patrimoni in pochissimo tempo. Ricordo un vecchio frequentatore del campo sportivo nel giorno infausto di un altro fallimento calcistico: “Una cosa sola è certa: a Torre Annunziata la palla al centro l’abbiamo sempre messa”. C’era fatalismo e speranza in quella affermazione che sicuramente qualcuno avrà già ripetuto. Alle discese ardite e alle risalite siamo abituati da sempre, basta scorrere la storia del Savoia per trovare conferma. In pochi mesi passammo dalla serie B, il sogno di una vita, al campionato d’Eccellenza. Per come quella vicenda era maturata, sarebbe venuta voglia di chiudere stadio e tribune e trasformarli in un carcere di massima sicurezza nel quale rinchiudere i protagonisti di quella truffa. Invece accettammo di ripartire: lo facemmo attraverso un imprenditore venuto da lontano, un titolo sportivo trasferito in tutta fretta, e una squadra costruita per vincere subito in quella categoria. In quegli stessi giorni nasceva l’Atletico Savoia, il vero modello alternativo, l’autentica rifondazione del calcio torrese. Ma qui non c’è spazio per due realtà, siamo pronti a dividerci su tutto, siamo capaci di presentare una legione di candidati per concorrere a un unico seggio in consiglio provinciale, il Savoia però non si tradisce. E’ così da 101 anni, anche se nessuno ha trovato le energie e i fondi per festeggiare il primo secolo di vita. Come regalo ci siamo beccati anche una retrocessione, arrivata alla fine di una stagione disgraziata, passata attraverso collette, trasferimenti in carovana, colazioni al sacco e notti trascorse sul ponte di una nave. Un’umiliazione continua durata 9 mesi. Anche questo già visto, già sopportato, già sofferto. Altre retrocessioni si sono consumate in un clima anche peggiore. Memorie dell’altro secolo:: un anno, campionato di serie C, la formazione veniva fatta al bar reclutando chiunque avesse un po’ di dimestichezza con il pallone. Totalizzò presenze persino un artista mancato del circo, bravo a palleggiare con una moneta da cento lire, meno a partecipare con un ruolo definito a una rappresentazione collettiva qual è una partita di calcio. Il campionato successivo andò pure peggio con un’altra caduta, dalla serie D alla promozione. La ricostruzione partì grazie al sacrificio di Pasquale D’Amelio, non un mecenate, ma un giornalista. A settembre rimettemmo la palla al centro, come sempre, ma dovemmo aspettare un finanziatore per risalire. L’attesa durò mesi, una sofferenza vera. Poi ci ritrovammo in ottomila allo stadio per una partita di Promozione. Cose viste solo a Torre Annunziata, la città dove il calcio non muore mai. MASSIMO CORCIONE