A cura della Redazione
Le testimonianze storiche non sono rappresentate solo dagli scritti dei fatti. Talvolta, anche una singola pietra, ancor più di un monumento o un’epigrafe, può conservare fonti uniche relative ad un determinato episodio accaduto in un’epoca ben più lontana da quella odierna. Come la storia ci insegna, è la pietra che prevarica sulla carta. Quest’ultima si deteriora, è soggetta all’incuria e all’abbandono. La pietra no, è un elemento inattaccabile dal tempo se non da determinati suoi vari agenti, che seppur con estrema fatica, riescono a scalfirla, ma non a cancellarla del tutto. Ma, ahimè, a questo ha rimediato la mano sfrontata dell’uomo che talvolta, pur di far posto al presente, diventa, inconsapevolmente, carnefice delle testimonianze del suo passato. E la mano scarna dell’uomo moderno, il più delle volte, sospinta dall’infido sentimento di venalità, non ha risparmiato nel tempo nemmeno la nostra città. Al sacrificabile passato, in questo caso, era caduto il cippo dedicato agli “illustri” colerici dell’epidemia che sconvolse Torre Annunziata, la città di Napoli e i suoi Casali, tra il 1836 e il 1837. D’altronde, non sarebbe di certo la prima volta, che nel corso dei secoli, a Torre Annunziata venissero sacrificate opere di inestimabile rilevanza storica per l’evoluzione del progresso. Il cippo lavico, con incastonata la lapide riportante i nomi dei militi borbonici che perirono durante i 90 giorni più virulenti dell’epidemia colerica, che una volta era collocato alla destra dell’entrata principale dell’antico Camposanto della città, venne rimosso per fare spazio al nuovo “nicchiario” e depositato in un angolo del cimitero. Esso giacque in abbandono fino al momento in cui, alcune settimane or sono, l’assessore all’Immagine e al Patrimonio artistico, Aldo Tolino, su segnalazione di alcuni attenti osservatori che già da tempo avevano segnalato l’anomalia, si è attivato per far sì che il cippo venisse ripristinato e ricollocato nuovamente in mostra al viandante. Ma perché il mancato riposizionamento di quel cippo ha tanto destato le preoccupazioni degli storici locali e degli attenti sostenitori del patrimonio artistico locale? Il fatto è semplice: esso è un monumento di notevole rilevanza storica. Questo per ovvi motivi legati sia alla sua concezione artistica sia all’importanza dei personaggi che esso rievoca. Volendo fare un’analisi più dettagliata del monumento, dobbiamo dire che esso, oltre a conservare la memoria dei nomi e delle loro gesta, delle peculiarità del monumento funebre, riferisce all’attento osservatore anche delle specifiche collegate alle antiche materie esoteriche. Annotiamo, innanzitutto, la sua forma in rievocazione alle antiche piramidi, ossia il concetto di collegamento della terra con il cielo, quindi il ritorno all’infinito. Le specifiche visive si amalgamano anche con gli antichi simbolismi. Al suo centro fa da padrone il serpe che, mordendosi la coda, avvolge in esso il nomi dei colerosi, in una simbologia ben definita legata alla continuità e all’infinità dell’universo. La fine che si riconcilia con il principio. Citando Antoine Lavoisier, tale simbologia si concilierebbe benissimo alla sua asserzione legata alla conservazione della materia: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Tra i nomi che il monumento rievoca, dei soldati di sua maestà il Re, Ferdinando II di Borbone, che al tempo stanziavano presso la Real Fabbrica d’Armi della città, in testa a tutti vi è impresso quello del Colonnello Sir William Robinson, alto ufficiale dei Marines della corona britannica, che giurò fedeltà alla corte del Re borbonico dopo i servigi prestati durante le campagne di guerra al fianco del Generale Marchese Vito Nunziante per la ricacciata dei napoleonici e la riconquista del Regno. Ma l’importanza del personaggio, a cui la città deve ancora merito, è ben altra, e non è legata solamente alle sue vicissitudini militari, ma anche alle sue intuizioni storiche. Robinson, nel frattempo di stanza a Torre Annunziata, alla direzione della Real Fabbrica d’Armi, venne designato dal suo amico estimatore - divenuto poi Tenente Generale “al di qua del Faro”, e che intanto sfruttava in maniera molto esaustiva il suo acume imprenditoriale - alla condotta dei lavori di trivellazione della falesia vulcanica di Capo Oncino alla ricerca di una sorgiva minerale. I lavori di scavo, avviati nel giugno del 1831, oltre alla tanto sospirata e ricercata bolla d’acqua, riesumarono importanti testimonianze murarie di epoca romana. La scoperta di quei reperti non passò di certo inosservata all’occhio attento di Robinson. Egli, appassionato di archeologia e profondo cultore delle materie umanistiche, mettendo fin da subito in campo le sue conoscenze (forse legate alle teorie settecentesche di Carlo Maria Rosini sull’esistenza di luogo ameno denominato dagli antichi come “Oplontis”, poco lontano da Pompei e da Ercolano, e prospiciente alla costa, espresse nel suo “Dissertatio Isagogica”), associò quei ritrovamenti dubbi all’esistenza di quella località fino a quel momento ignorata. Di fatto, ebbe ragione. Quelle scoperte erano le prime vestigia di Oplonti, che ufficialmente rinvenivano alla luce dei tempi dal ventre della terra. Ovviamente, anche in questo caso, il progresso prevaricò. La scoperta del Robinson, benché dettagliata, venne spazzata via, ma non il suo pensiero e le sue convinzioni. Oggi, Torre Annunziata si ricorda per caso di quell’uomo. Un caso legato ad un tragico evento pandemico, che inconsapevolmente e fortunatamente, riesce in maniera silente a mantenere vivo il ricordo e il nome dello “scopritore” di Oplontis, Sir William Robinson. VINCENZO MARASCO *Presidente Centro Studi Storici “Nicolò d’Alagno” (dal settimanale TorreSette del 7 ottobre 2011)