A cura della Redazione

La storia vesuviana è ricca di avvenimenti legati alle vicissitudini geologiche della nostra “Montagna”. Tanti di questi episodi hanno determinato momenti importanti dello sviluppo della vita ai suoi piedi. Hanno arrecato talvolta grande stupore per i fenomeni scaturiti, talvolta grandi lutti, ed altre volte ancora atti di fede unici e memorabili, che hanno rafforzato il cordone vitale che da millenni lega l’uomo a questa terra. Con queste poche righe vogliamo ricordare quanto accadde durante l’aprile del 1906. E, allo stesso tempo, commemorare le centinaia di vittime che perirono a causa del flagello. 

L’eruzione del Vesuvio del 1906, classificata poi come l’evento vesuviano più distruttivo del XIX secolo, cominciò con i “soliti” subdoli tremori il giorno 3 aprile. Al tempo la gente era abituata ai continui mugugni della montagna e piuttosto assuefatta alle continue eruzioni effusive intervallate da piccoli fenomeni stromboliani, che quasi sempre restavano confinati nei pressi del Gran Cono e non andavano oltre la Valle del Gigante. Il professore Vittorio Matteucci, l’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, dimostrò fin da subito la sua titubanza per come si era mostrato il fenomeno durante le prime fasi parossistiche. Il Vesuvio minacciava qualcosa di veramente importante! Le colate laviche non si fecero attendere molto, e già dalla mattina del 4 aprile lo stesso Matteucci, salito in perlustrazione lungo i fianchi del vulcano, notò i primi rivoli di lava dirigersi in direzione sud-ovest. L’allarme generale fu immediato. Le continue crepature minacciavano seriamente un collasso della parte sommitale della montagna.

Con un telegramma indirizzato, il 5 aprile 1906, al Ministro dell’Istruzione, on. Paolo Boselli, Matteucci così enunciò (testo integrale): Onoromi annunziarle che da ier mattina cominciò al Vesuvio nuova fase eruttiva assai forte. Cratere attivissimo. Corrente lavica scende verso Torre Annunziata. Io trovomi sul teatro eruzione con arma Carabinieri invocando mezzi pecuniari e telefono. Avvertola che comunicazioni telegrafiche Osservatorio sono purtroppo interrotte. MATTEUCCI. 

Infatti così accadde: il direttore, insieme ad un carabiniere, due dipendenti della Ferrovia Cook & Son ed uno studioso statunitense, rimase bloccato per tutta la fase eruttiva, anche quella più acuta, presso il palazzo dell’Osservatorio senza alcuna via di fuga. Fu un miracolo averli, poi, ritrovati vivi dopo quasi due settimane di isolamento. Il lavoro dei quattro fu unico, in quanto continuarono ad emanare telegrammi alle autorità sull’evoluzione dell’evento e lo stato della montagna. 

Ma ritorniamo a quanto intanto accadeva nei paesi sottostanti: il disastro totale! Le prime a soffrire furono le popolazioni di Boscotrecase e Torre Annunziata, le quali trepidarono non poco per il cammino incontrastato del fiume di lava. Il rione Oratorio di Boscotrecase, il giorno 8 aprile, non esisteva più. Tutto venne spazzato via, sormontato dall’enorme massa di lava che in alcuni punti raggiunse anche i 5 metri d’altezza. La Chiesa di Sant’Anna, come per miracolo, venne dapprima aggirata, poi controbattuta e infine insinuata dalle lave, ma resse alla lotta furibonda con il fuoco. E mentre il popolo boschese, affranto e distrutto, contava i suoi danni, cercava tra la schiuma increspata del fiume di fuoco di ritrovare il luogo dov’erano un tempo le case, i torresi cominciarono a preoccuparsi seriamente per la loro sorte. Con le lave quasi al cimitero, sotto un’incessante pioggia di pietre e ceneri, una colonna di fedeli si levò dai vicoli e dalle strade per portare in processione i propri Santi. Il Sacro contro il “Sacro”.

Fu così, ed il popolo impaurito provò a chiedere il ripetersi del miracolo del 22 Ottobre 1822, riportando contro il fuoco l’effige di Maria SS. della Neve. Al cimitero di Torre Annunziata vi fu un incontro-scontro tra “Titani”: due grandi Madri al cospetto. La Madre dei cieli di fronte alla Grande Madre “naturalis”. Di questo episodio esiste una sola immagine che inseguiamo da tempo. L’8 aprile i torresi ricevettero l’ennesimo miracolo: la “Grande Madre” decise di fermare la sua mano infuocata. Oggi chissà se avrebbe risposto in tal modo. La tragedia continuò con elevata furia sui paesi del versante sud-est. Ottajano, San Giuseppe e Terzigno stavano patendo l’Inferno. Tonnellate di ceneri infuocate, proiettili di lava, pietre e scorie di ogni genere cominciarono a scagliarsi per giorni su quei centri. I morti si contarono a centinaia per il crollo delle case e per l’aria asfissiante. Il Vesuvio mostrò la sua clemenza solo dopo venticinque giorni dall’inizio delle “ostilità”, quando ai drammi del fuoco e delle ceneri si aggiunsero poi quelli delle acque meteoriche che trascinarono a valle tutto quanto si era nel frattempo posato lungo i versanti della montagna, causando fiumi neri e fangosi. Il fenomeno perdurò per anni. Alla fine dell’eruziuone la conta dei morti fu tremenda: San Giuseppe pianse centosedici suoi figli, Ottajano settantotto, Boscotrecase tre, Resina, Torre del Greco e Somma, due. Altri relegati negli altri comuni vesuviani tranne Torre Annunziata, che riferì solo di qualche contuso, per un totale di duecentosedici vittime.

Al cimitero esiste ancora oggi un’epigrafe marmorea che ricorda quell’evento così drammatico.

(foto Archivio Vincenzo Marasco)

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