A cura della Redazione
La crisi finanziaria assoggetta le prospettive economiche dei popoli ai capricci della Borsa, o più precisamente alle mire oscure di un manipolo di speculatori. I governanti (e più specificatamente quelli italiani), nel cercare i rimedi, farebbero bene a rileggere John Galbraith. Il pensiero dell’economista americano, che è stato consigliere di Kennedy, è famoso per aver criticato la società opulenta degli anni ´70. Il suo pensiero potrebbe aiutare perché alcuni luoghi comuni di allora sono egemoni anche ai nostri giorni. Mi riferisco all’importanza attribuita al tasso annuo d’incremento del reddito nazionale: indice privilegiato nelle scelte di politica economica sia da parte dei governanti di destra che di sinistra. Non a caso, l’incarico conferito a Mario Monti, neo premier, del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nasce proprio da questa esigenza. Che cosa si chiede all’ex commissario europeo? Rimettere in sesto la macchina produttiva nazionale perché è convinzione generale che solo un miglior tasso di sviluppo economico potrebbe tranquillizzare i mercati sulla solvibilità del nostro Paese. La crisi economica attuale è nata sui mercati internazionali, più precisamente negli Stati Uniti, a causa di alcuni strumenti finanziari, come i derivati, che creati per tutelare le operazioni a termine, sono diventati espedienti per lucrare pericolosamente in Borsa. Inoltre, le banche di tutto il mondo si sono esposte imprudentemente, oltre il consentito, in investimenti immobiliari. Una volta che il valore delle case è cominciato a scendere gli enti creditizi sono andati in perdita. Sono state avviate politiche di gestione che prima hanno messo in crisi le banche, successivamente i governi nazionali che sono stati costretti a ricapitalizzarle. E’ il caso americano e di molti Paesi europei. Una discorso a parte è quello della Grecia, dove sono stati falsati i dati di bilancio nazionale. Altro caso distinto è quello italiano. Nel nostro Paese non sono stati i derivati o i mutui a determinare la crisi, perché il sistema bancario si è meno esposto in quelle forme d’impiego. Bensì la svalutazione di Titoli di Stato ad opera di agenzie di rating ed investitori istituzionali, dovuta alla preoccupazione scaturente dalla dimensione eccessiva del debito pubblico italiano. La stagnazione della sua economia ha fatto temere per il loro rimborso. Prima di concedere un prestito, il creditore valuta la solvibilità della controparte sulla base di patrimonio e liquidità e data di rientro. Per i debiti pubblici nazionali non ci sono scadenze definitive. I governi li rinnovano alla scadenza per importi (uguali o maggiori). Ne consegue che vengono protratti per intere generazioni senza mai essere saldati a causa dei disavanzi di bilancio, dal momento che i governanti preferiscono, per motivi di consenso, la politica del grillo a quella della formica. Nel caso europeo la politica monetaria (affidata alla BCE) dovrebbe essere accompagnata da quella fiscale, gestita invece a livello nazionale. E’ ovvio che a nessuno piace “mettere le mani nelle tasche dei contribuenti”. Se proprio si deve fare, meglio colpire le categorie legate all’opposizione politica in Parlamento. E’ esemplare il caso italiano, quando è stata penalizzata la cultura (“con la cultura non si mangia”) per il semplice motivo che intellettuali, artisti ed insegnanti votano prevalentemente per il centrosinistra. E’ tramontata da tempo la figura di statista orientato all’interesse generale. Prevale la figura di governante che coltiva il consenso favorendo il suo elettorato. Vale l’esempio di Umberto Bossi, che ha preteso che non si toccassero le pensioni perché altrimenti ne avrebbe risentito maggiormente il popolo leghista. La conclusione è che i governi degli Stati europei, anziché impegnarsi nel prelievo fiscale e la lotta all’evasione, propendono per l’incentivazione del Pil. Con l’incremento del reddito nazionale si possono trovare risorse per risolvere tutti i problemi, inoltre migliora la reputazione di solvibilità. Alla fine si galleggia sull’olio, "rinviando" i problemi alle generazioni successive. Ne consegue che si privilegia lo sviluppo a scapito dell’equità. Infatti, il tasso di sviluppo è presentato come la chiave di volta di politica economica da cui dipendono tutte le scelte di un governo. Ecco perché i banchieri sono presentati, in tempo di crisi, come i migliori statisti possibili. E’ il caso di Monti, prima di lui Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi. Lasciando il governo del Paese in mano ai banchieri, finisce però il primato della politica. Licenziamenti, disagi sociali, tagli agli aiuti alle fasce deboli sono presentati come necessità derivanti dalle richieste di mercato. A questo punto, rileggendo Galbraith, viene da pensare che probabilmente aveva ragione lui quando affermava che i governanti dovrebbero essere più coraggios,i contrastando con iniziative di politica sociale il minor incremento del saggio di sviluppo, per privilegiare l’umanità sacrificando una piccola parte di opulenza. MARIO CARDONE