A cura della Redazione
L’erede designato dalla famiglia Gionta di Torre Annunziata, uno dei clan della Camorra più sanguinari, è da qualche tempo a Torino, in una cella del Ferrante Aporti (nella foto). Il 2 settembre 2009 ha compiuto diciotto anni ma ha diritto di restare nell’istituto per minori sino ai ventuno. E’ stato condannato a tre anni di carcere, per estorsione e altri reati, assieme ai boss della sua famiglia. Si chiama Valentino Junior, nipote di quel Valentino che fu uno dei numeri uno del sistema criminale. Sposato con una donna dei Chierchia, i Fransuà, il suo destino rischia di essere già segnato. I pm dell’Antimafia considerano la lettera del padre, Aldo Gionta, uno dei boss della camorra di Torre Annunziata, al figlio un breviario criminale. Sembrerebbe allontanarlo per sempre da ogni possibile recupero, dall’ipotesi di una vita finalmente normale, lontana dalla stragi, dai narcotraffici e dalle estorsioni. Simbolo dell’avvenuta trasmissione dal padre al figlio dei poteri di controllo di uno dei racket più sanguinosi e feroci: «Caro figlio, non permetterti più di fare qualcosa senza il mio permesso. Poi giura su tuo figlio. Per adesso pensi a fare i soldi. Anzi, digli a Tatore che io avanzo 26 mila euro per gli avvocati». Fai tredicimila tu e tredicimila lui e li dai a tua madre. Perciò diglielo a Tatore. Poi ti voglio dire state attenti dove parlate tu, Tatore e tuo cognato che ci sono microspie dappertutto. Poi tutti e tre imparate a sparare mitra, fucili e kalashnikov. Imparatevi in posti dove non vengano sbirri, cioè le guardie. Poi quando sapete usarli bene vi dirò io cosa fare. Fatti furbo non parlare con nessuno che ci sono microspie e poi la gente se la canta. Ascoltami, non fare nulla per adesso. Ti bacio forte a te, Gaetano e Tatore». Valentino aveva 17 anni, davanti ai suoi occhi erano già sfilati decine di morti. Tatore è il soprannome di Salvatore Paduano, considerato uno dei luogotenenti di Aldo Gionta, pure lui in carcere. Valentino, arrestato dalla squadra mobile di Napoli per tentato omicidio ed estorsione ad alcuni imprenditori della zona, è stato condannato a tre anni di reclusione. Qundo fu condotto in carcere a Napoli, nella tarda primavera del 2009, Valentino jr ebbe l’onore di essere atteso e accompagnato da tutto il clan nell’istituto per i minori di Nisida. Lì era troppo facile mantenere i contatti con la famiglia; lui che è stato prescelto per riprendere le redini della cosca dopo la spaventosa catena di arresti dal 2007 ad oggi. Da qualche tempo è recluso nell’istituto Ferrante Aporti di Torino. «E’ un detenuto modello - spiega una giovane agente della polizia carceraria - non dà nessun tipo di problema. Legge molto, ascolta la tv, partecipa alle attività sociali e ricreative. Il problema non è lui...». E qual è? «E’ che sappiamo bene quali sono i suoi rapporti con la camorra, lo sanno anche gli altri ragazzi che, in un certo senso, sembrano ammirarlo, forse invidiarlo. Ha già carisma, per la sua età». Valentino Junior è già padre di un bimbo. Un ragazzo calmo, rispettoso con gli agenti e gli operatori, dagli psicologi agli insegnanti. Si vede che è diverso dal mini-rapinatore marocchino che usa le bottiglie rotte per strappare il cellulare o la catenina alle vittima, un po’ il prototipo del detenuto del Ferrante Aporti, assediato dai media solo quando ha accolto nelle sue mura dall’aspetto rassicurante, più una scuola che un carcere, i protagonisti di efferati delitti. Come Erika e Omar, come la ragazza che uccise una suora nel profondo Nord, tanto per divertirsi, assieme alle sue amiche sataniste. «Valentino, se riuscisse a tagliare ogni contatto con Torre Annunziata, a partire dai genitori, dai cugini, dai fratelli, dagli zii, forse ce la farebbe. Ha tutte le qualità per farcela davvero. Questa è solo una speranza». Al Ferrante Aporti ci sono i soliti problemi dell’universo carcerario. Manca il personale, mancano i mezzi. «La custodia di un soggetto del genere, cioè l’erede designato di una delle famiglie più importanti del sistema camorristico, non può essere esercitata con i mezzi comuni. Non si tratta solo di impedire che evada, possibilità remota, visto che la fine della pena si va avvicinando, ma di avere contatti, dare e ricevere ordini da chi dei suoi è già in carcere o ancora fuori. Anche per proteggerlo. La vita di queste persone è in parte giù segnata, prigioniera di copioni già scritti, spesso appesa a un filo». Gli agenti, il termine di una sorta d’umana pietà, la pietas latina, non lo usano mai. Ma traspare dall’espressione del viso, dal tono di voce, dalle sfumature dei loro discorsi. Un ragazzino che deve imparare in fretta a usare i Kalashnikov, a ritirare e a dividere il pizzo con i complici. E forse anche ad uccidere. MASSIMO NUMA (Da La Stampa.it del 9 agosto 2010)