A cura della Redazione
Le vicende dense di problematicità, private o pubbliche, umane, politiche o professionali, possono essere esaminate assumendo punti di osservazione diversi. L’analisi ed i possibili rimedi risentiranno, necessariamente, della collocazione scelta: suggerisco di assumere un punto di osservazione esterno. In questa parte del Paese la difficoltà del Pd, sia ad insediarsi nella società sia ad essere percepito come qualcosa di nuovo e significativamente migliore delle principali formazioni che hanno contribuito alla sua nascita, è oggettiva. Tale difficoltà, legata al processo fondativo ed alla specifiche connotazioni del sistema politico partenopeo, è acuita dalla percezione di scarsa efficienza e credibilità del governo municipale di Napoli e di quello regionale. In questo scenario, l’atmosfera che respirano coloro che guarda(va)no con fiducia alla nascita di questa formazione è quella del disincanto e della disillusione. Si diffondono atteggiamenti rinunciatari, la sindrome della inevitabilità della sconfitta conta adepti crescenti. Nei gruppi dirigenti affiorano approcci dilettantistici, le letture politiche degli eventi sono soppiantate da maldestre surroghe da “opinion maker”: sembra rimossa l’ambizione (ma anche la vitale presunzione) di essere “pars”, di essere un luogo di elaborazione collettiva capace di una visione e di proposte, più adeguate di altre, avanzate per migliorare le condizioni di vita della gente. La discussione sui limiti e gli errori del ciclo politico cominciato nel 1993, ed ormai esaurito, si sta trasformando in resa dei conti, concedendo un insperato vantaggio al centrodestra, attraversato da criticità analoghe, se non più ampie, in tema di credibilità ed autorevolezza morale. Un errore ulteriore a cui va posto rapidamente rimedio. Sarebbe fruttuoso concentrarsi, preso atto delle evidenti responsabilità soggettive, sulle ragioni che hanno determinato i problemi con i quali oggi siamo chiamati a fare i conti. Per farne tesoro ed introdurre i conseguenti correttivi. Per capire. Bassolino, ad esempio, sostiene che le principali ragioni dell’involuzione del ciclo politico apertosi nel 1993 sono addebitabili, prevalentemente, a due fattori: 1) la rinascita civile, il riscatto di Napoli non poteva reggersi esclusivamente su dati “amministrativi”. Era necessaria una crescita della ricchezza, un incremento dello sviluppo che avrebbe avuto effetti anche sulla civiltà, mettendo in sicurezza lo scatto di orgoglio e di identità post ’93. Questo, egli sostiene, non c’è stato ed ha pesato moltissimo; 2) le alleanze politiche e le contaminazioni (Udeur, De Mita, etc.) sono il frutto di pressioni romane e, quindi, non ascrivibili alla sua sola responsabilità. L’analisi di Bassolino va considerata un prezioso e complementare arricchimento dello sforzo per capire quanto è accaduto. C’è, tuttavia, chi considera questo ragionamento parziale ed insufficiente e fa riferimento ad altri “nodi”. Ne cito solo quattro: a) la scelta di avere, in quegli anni, un partito “debole” è stata funzionale al consolidamento di una leadership personale, costruita nelle Istituzioni, dando vita al “modello” istituzione/partito (non si sa se riecheggiamento leninista o versione partenopea del modello Berlusconi); b) la richiamata debolezza, una volta divenuta strutturale, imponeva la costruzione del consenso non più per via “politica” ma attraverso il “governo”. Quindi, non più gradimento di analisi e soluzioni ma, innanzitutto, soddisfazione di interessi. In ragione di ciò, la rete di relazioni si è trasformata in sistema di potere; c) la rimozione della coppia dialettica partito/istituzione ha prodotto la significativa trasformazione della formazione di riferimento, i Ds, alimentando metodi e afflusso di energie la cui ossessione era costituita dal consenso, inseguito, prevalentemente, a prescindere dalla qualità delle persone impegnate sui territori: ciò ha ipotecato i gruppi dirigenti ed influenzato la loro qualità. L’altra formazione proiettata nella costruzione del Pd era, se possibile, ancor più esposta a questi rischi; d) questo modello si è proiettato nei partiti, nella coalizione e nel rapporto con la società ed ha anche consentito di trasformare in veti forti le obiezioni deboli dei partiti della sinistra radicale su alcuni temi (ambiente, rifiuti, ricollocazione assistenziale di forza lavoro espulsa dai processi produttivi, etc), paralizzando l’azione di governo che appariva da un lato clientelare, dall’altro incerta ed immobile. L’insieme di tutti gli elementi raccolti, pur tenendo conto del positivo giudizio sulle tante cose realizzate e sulla capacità di mobilitazione delle coscienze determinatasi nella prima esperienza al Comune di Napoli, restituisce un quadro di motivazioni abbastanza verosimile dell’attuale difficoltà del Pd e delle Amministrazioni in cui esso è impegnato. A questo punto, propongo semplicemente di trarre qualche insegnamento e di intervenire laddove è ancora possibile farlo. I terreni sui quali intervenire sembrano due: 1) la distinzione netta tra partito e luoghi istituzionali (consiliari e di governo); 2) le modalità di selezione dei gruppi dirigenti e di costruzione del consenso (nel rapporto con la società e nella definizione delle alleanze). Il primo interrogativo da porsi è il seguente: in quante altre Amministrazioni dell’area metropolitana l’archetipo realizzatosi nel corso di questi anni è tuttora attivo? In quanti altri luoghi è stata data prevalenza all’esigenza di vincere comunque, è stata banalizzata la vicenda programmatica, è stato minimizzato il dato etico, il partito è stato reso semplice notaio garante di equilibri di potere, le iscrizioni non sono il frutto di decisioni consapevoli ma di sollecitazioni indotte da “capi-corrente di provincia”? Non sarà particolarmente difficile scoprire che non sono poche le realtà su cui gravano tali rischi. Cosa si vuol fare? Assistere inermi o affrontare le situazioni? E’ opportuno definire distinzioni più nette tra funzioni politiche ed istituzionali (consiliari e di governo), evitare indebiti “padroneggiamenti” delle organizzazioni locali, è utile ridefinire i programmi con indicazioni certe e vincolanti, operare una “moral suasion” (ferma restando l’autonomia dei sindaci) affinché vi sia maggiore attenzione alle squadre di governo, rendendole più coerenti a questa rinnovata attenzione da mettere in campo in tema di autorevolezza morale, di prestigio culturale, di riconosciuta attitudine alla soluzione dei problemi collettivi ? Questi sono alcuni rimedi che, probabilmente, potrebbero tornare utili per ridare slancio alla costruzione ed al radicamento del Pd sul territorio. Parlarne non sarebbe dannoso. Raffaele Ricciardi Riformisti nel Mezzogiorno