A cura della Redazione
Ciro, uno stesso nome per due storie che in comune hanno la passione per il calcio. Da un lato c’è un quartiere, praticamente una città – Scampia – che si chiude, si stringe intorno alla famiglia e agli amici di Ciro Esposito, tifoso ucciso a due passi dallo stadio Olimpico di Roma, dove il suo Napoli avrebbe giocato (e vinto) la finale di Coppa Italia con la Fiorentina. Dall’altro un altro Ciro, Immobile da Torre Annunziata, stessa area metropolitana, per il quale mezza Italia s’era schierata, chiedendone a gran voce l’inserimento nella nazionale che si giocava contro l’Uruguay (perdendo miseramente) la sopravvivenza nel mondiale brasiliano. Per lui si fermò Torre Annunziata e (per la squadra) tutto il Paese. La partita della vita l’avevamo definita tutti, con quel tanto di esagerazione e di retorica che lo sport si porta sempre nelle sue narrazioni. La vita, e non solo metaforicamente, l’ha persa l’altro Ciro, il tifoso, che la sua partita la stava giocando dal 3 maggio tra i reparti e le sale operatorie del Policlinico Gemelli di Roma. E’ morto di calcio, un altro tifoso gli ha sparato con una pistola che non avrebbe mai dovuto possedere, soprattutto non avrebbe mai dovuto impugnare. Invece è successo, intollerabile esecuzione per una ruggine calcistica che tra napoletani e romanisti è scoppiata più di un quarto di secolo fa. Una storia che produrrà effetti disgraziati per chi sa quanto tempo ancora, se prima non arriveranno le norme giuste per fermare questa assurda guerra. La storia di Ciro, Immobile, è invece una storia di vita, il sogno di un ragazzo partito dai campetti di periferia e arrivato al mondiale dei mondiali, nella terra del calcio. Il massimo del massimo per chi ama il pallone, per chi da ragazzino ascoltava i racconti del papà che calciatore lo è stato, ma nelle serie che non contano. Da oggi sarà lui a raccontare, un romanzo di vita che non può non comprendere le sconfitte e le delusioni. Come questa che ha obbligato la nostra nazionale a un ritorno frettoloso e poco onorevole. Ha la coscienza tranquillissima, Ciro: non gli hanno mai concesso di poter giocare come ha fatto per un anno intero a Torino. Non avrebbe mai segnato 22 gol, se Ventura lo avesse schierato come ha fatto Prandelli. Non avrebbe mai trovato il Borussia e il suo allenatore Klopp pronti a tutto pur di portarlo a Dortmund, piazza d’onore della Bundesliga, nuova frontiera del football europeo. Diventa emigrante per scelta, pronto a tornare ogni volta che il futuro cittì dovesse chiamarlo in azzurro. Ciro&Ciro, due ragazzi con lo stesso sorriso: spontaneo, quasi un inno alla vita. Continuerà solo quella di Immobile, Ciro Esposito s’è fermato. MASSIMO CORCIONE