A cura della Redazione
Il cielo era popolato da mille nuvole quel pomeriggio, il mare un po’ imbronciato, l’orizzonte quasi incerto: eppure visto dal salotto di Peppe Viola Torre sembrava tutta uno spettacolo. Il merito della trasfigurazione del panorama era suo, del poeta-architetto che aveva scoperto lo straordinario filone dell’umorismo, diventando fine dicitore dei propri pensieri, che poi erano i pensieri di tutti noi. La differenza risiedeva nella nostra incapacità a esprimerli, a renderli ancora più potenti con l’uso sapiente della lingua napoletana. Noi, liceali in attesa di maturità, eravamo lì per invitarlo al nostro Mak P, scritto con la p greca, formula misteriosa per indicare la festa a cento giorni dalla fine dell’ultimo anno scolastico. Incantati da un racconto che era la cronaca della nostra vita: manie, paure, vezzi e vizi, tutti fermati con pochi versi, come un vignettista disegna il carattere con qualche tratto di matita. Meglio di una lezione di storia, con qualche concessione alla letteratura. Roberto Murolo lo aveva già scoperto, chiedendogli di accompagnarlo nei suoi recital. Due poeti: più nostalgico il maestro con la chitarra, più graffiante il poeta che aveva cominciato celebrando sarcasticamente il vibrione, indesiderato ospite dell’estate ’73 che cambiò usi e costumi di ogni napoletano. Era quasi riuscito a farlo diventare simpatico, il vibrione, disgraziato quanto noi, costretto a inguaiarci per sopravvivere. Non c’è stata moda, carattere o fissazione che Peppe Viola non abbia colto e sferzato con la sua ironia. E, proprio mentre la tv imponeva il suo linguaggio omologante, aveva scelto di rivalutare il dialetto, perfettamente consapevole di essere rimasto uno dei pochi a saperlo scrivere, distribuendo con pignola precisione accenti ed elisioni. Un paradosso, uno dei tanti ai quali far ricorso per sottolineare mille contraddizioni. Con la prima aveva imparato a convivere da subito: esatto opposto del proprio gemello. Lui sguardo incantato ed eternamente sognante, Mimì concreto e razionalmente legato al reale: il primo disegnava, il gemello costruiva, perfetta sintesi che regalava a entrambi sicurezza. Senza Peppeviola (lo chiamavano così, tutto d’un fiato, tanto per renderlo ancora più unico) ci sentiamo più insicuri, stretti nei nostri tic, nelle nostre piccole miserie, senza che ci sia più nessuno a castigarci con la forza di un verso. Anche se - da lassù - davanti alla pioggia di retorica che di solito accompagna le celebrazioni di chi lascia la scena, l’unico verso che sceglierebbe sarebbe una pernacchia. Alla Eduardo. MASSIMO CORCIONE