A cura di Enza Perna

11 novembre 2010. Ricevo una telefonata dal mio direttore. “Enza, Maria Orsini Natale non è più”. 
Un attimo di smarrimento. Le lacrime mi scendevano lentamente. Mi ripetevo: “No, non può essere”. Qualche settimana prima le avevo parlato al telefono. Mi salutò con voce triste. “Ciao Stella”. In quell’attimo non capii che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito quel dolce appellativo. 

Sono trascorsi cinque anni e in questo preciso istante in cui scrivo, di getto, sì perché lei mi ha insegnato che le emozioni devono essere trasferite d’impulso, così come nascono dal cuore, mi ritrovo a rivivere quegli attimi vissuti insieme.
Come un film a rallentatore, la rivivo. 

Cinque anni. All’ultimo saluto le sussurrai “Signora Maria, ho trovato il mio compagno per la vita. A maggio mi sposo”. Ne sarebbe stata contenta. So che in quell’istante mi avrebbe sorriso con quegli occhi dolci che la contraddistinguevano.
Quanti pomeriggi abbiamo trascorso a parlare dell’amore, della maternità. Quanti bei ricordi mi ha raccontato del suo amato consorte. Ne era ancora follemente innamorata. Da donna d’altri tempi, mi ha consigliato durante la mia fase dell’innamoramento. Era una mia amica. Il nostro rapporto lavorativo si trasformò quasi da subito in amicizia. Sembra assurdo pensare che due generazioni diverse entrino così tanto in sintonia. Invece no, eravamo due amiche. Due genera-zioni a confronto, lei chiedeva a me alcuni modi di pensare dei giovani “moderni” e io imparavo da lei quelli di una volta, quelli che forse non si apprenderanno più. 

Dalla sua scomparsa, non ho mai parlato di Maria Orsini Natale, scrittrice di successo, perché questo è da sempre noto a tutti. Ho costantemente voluto raccontare la grandezza di quell’“anziana donna”, come amava definirsi, che ha fatto della sua terra e dei suoi figli la sua fonte d’ispirazione. Una donna che aiutava i giovani, gli amici di sempre e di mai, quelli che vanno e quelli che vengono. I ne ho visti. Tanti venivano da lei anche solo per dirle “ciao”, e li accoglieva sempre con tanto amore.
Nel 2006 entrai per la prima volta in quella stanza del sapere che era la sua casa. Lei era la mente e io il braccio, come inizialmente mi definiva. Sì, perché io ero colei che sapeva utilizzare quella “strana” macchina chiamata computer. Un oggetto sconosciuto per lei. “Enzù mi devi insegnare ad usarlo”, mi chiedeva. Ma dopo ogni suo tentativo finiva col rimpiangere i tempi non tecnologici, quando per scrivere bastava un foglio di carta, una penna o al massimo una macchina da scrivere. 

Ricordo che una volta voleva stampare da sola un documento. Io non ero con lei. Mi telefonò disperata perché il pc si era bloccato da solo. Era preoccupata che i file fossero andati persi. Ma quando le mostrai il floppy disk sul quale salvai gli scritti, sorrise come una bambina. “Sei la mia stella, sei magica!”, mi disse. Da quel giorno, ogni volta che scrivevamo anche un solo periodo, mi chiedeva: “L’hai salvato sul floppy?”. Stava acquisendo una dimestichezza del linguaggio informatico. 
Il suo stile artistico era particolare, ma i retroscena erano intensi, tipici e qualche volta divertenti. Le nostre giornate lavorative erano caratteristiche. Arrivavo a casa sua, bacio mattutino, caffè e subito a lavoro. Lei dettava il testo, io scrivevo, dopo lo leggevamo, con intonazione, lo stampavamo e alla fine sembrava essere sempre convinta di ciò che era stato scritto. Tra uno step e l’altro, così, improvvisamente, mi chiedeva di abbracciarla. E per me era sempre un’emozione. Era un momento tenerissimo. A lavoro finito andavo via con un bacio pomeridiano. Il giorno dopo, al mio ritorno, trovavo mille correzioni in rosso. Come un compito corretto da un’insegnante. La sua penna rossa interveniva durante la notte. Lei scriveva sempre. Voleva dire, dire e dire ancora. All’inizio non riuscivo neanche a capire il perché scegliesse un termine anziché un altro, visto che il significato sembrava lo stesso. Ma lei mi spiegò che “Le parole hanno una propria musicalità, un proprio ritmo, sembrano uguali ma non lo sono”. Ed ecco che ogni volta che mi ritrovo a scrivere un pezzo, quella vocina mi sussurra questo stile. Perché poi rossa? Usava sempre la penna rossa. Mi disse che le correzioni devono essere evidenti, perché sono calde. Sono la parte essenziale dello scrivere. Ebbene è vero. Quando scrivo un articolo anche io riesco ad individuare gli errori solo annotandoli con la penna rossa. 

Era una donna elegante e stilosa. Sorridente, pensierosa, ottimista, simpatica. Spesso però la malinconia l’assaliva. Me ne accorgevo subito. Il suo volto sembrava annerirsi improvvisamente. Per risollevarle l’umore le proponevo passeggiate per la città. Caffè, cioccolata. Passeggiate in auto nel posto che lei amava. Il mare. Ebbene la brezza marina le schiarivano il volto. Ritornava felice e allegra. Non si contano le volte in cui per rallegrarla ci “isolavamo” nella sua cabina armadio. Era come entrare in una macchina del tempo. Ogni singolo vestito aveva una sua storia, un percorso. Cappelli, sciarpe, bastoni, foulard. Un insieme di colori e di vitalità. Si divertiva a farmeli indossare. Lei selezionava i capi e io ero la sua modella. Era diventato un gioco. Ogni abito o cappello rappresentava un momento importante per lei. 
Il venerdì, poi, era d’abitudine andare al mercato assieme. Voleva stare tra la sua gente. Voleva vedere i colori, mi diceva, sentire il calore e la voce del suo popolo. Il nostro shopping assieme era davvero piacevole. Provavamo le stoffe per ricavarne poi degli abiti. Li faceva indossare a me. “Voglio vedere che effetto danno su di te, su una pelle giovane e bella”. Se mi piacevano, le acquistava e dopo venivano fuori degli abiti bellissimi.

E i profumi, ne sentivamo tanti ma Chanson d’Eau era il suo preferito. Compravamo rossetti, trucchi e creme varie. Poi tornavamo a casa e ci divertivamo a provarli. 
Raccontare di lei è sempre un’emo-zione. Cerco di essere attenta all’uso delle parole, perché il suo ricordo deve suscitare allegria, soddi-sfazione, non tristezza e malinconia. Non era questo il suo essere. Si dovrà parlare di lei come una parte di una terra che non morirà mai. Tramanderò a mia figlia i suoi insegnamenti, la sua essenza. La grandezza dell’essere di una donna non muore con il suo corpo. Ecco perché Maria Orsini Natale non morirà mai. 
Novembre 2015. A cinque anni dalla sua scomparsa sarà ancora ricordata, e son certa che ovunque lei sia in questo momento leggerà ciò che sto scrivendo. Ne sorriderà. Le nostre menti saranno in sintonia ancora una volta. Attraverso la scrittura rivivremo insieme i momenti magici della nostra conoscenza. Quella stessa “scrittura” che ci ha fatto incontrare. 

(da TorreSette del 6 novembre 2015)