A cura della Redazione
«Io, pusher costretto a spacciare...» In passato Torre Annunziata era famosa per gli innumerevoli pastifici, per la sua attività portuale e per l’incantevole litorale che favoriva il turismo balneare. Oggi, invece, è conosciuta, in Italia, in particolar modo per lo spaccio di stupefacenti, con un mercato molto “florido” soprattutto nel centro storico, laddove una volta pulsava il cuore della città. Gli attori protagonisti di questa piaga sociale sono i pusher, ragazzi, spesso minorenni, che si dedicano allo spaccio della droga seduti in sella ai loro motoscooter. E poi le “sentinelle”, giovanissimi che danno l’allarme in caso di arrivo di carabinieri, polizia o guardia di finanza, pronti a sfuggire ad eventuali controlli delle forze dell’ordine, rischiando spesse volte la loro incolumità e mettendo a rischio quella degli agenti. Ed è proprio a due di loro che ci siamo rivolti per conoscere il perché di tale scelta. Spesso, dietro queste pesanti verità, si nascondono storie difficili di ragazzi che crescono nel degrado, in una realtà in cui da sempre regna la cultura dell’illegalità; dove, anche quando si è piccoli, si deve pensare ed agire da grandi. E’ il caso di Roberto (nome di fantasia), 21 anni, che da pochi mesi svolge il “mestiere” di “sentinella”, guadagnando 300 euro a settimana. Perché hai scelto di inserirti in questo giro? «Non avevo un lavoro, ero solo e dovevo pur mangiare e vivere». Ma non hai mai provato a cercarti un lavoro “pulito”? «Si, sono stato al Nord Italia, ma non ce l’ho fatta, sentivo nostalgia del mio paese. Non ritengo giusto che noi giovani torresi dobbiamo vivere in un posto che non ci appartiene. Quando sono ritornato non ho trovato altro da fare, purtroppo». E non hai paura di vivere con l’angoscia di poter essere arrestato o, ancora peggio, di trovarti coinvolto in un qualche episodio pericoloso? «No, sono una sentinella, posso scappare appena c’è qualcosa che non va. E poi sono i rischi del mestiere, chi fa questo sa a cosa va incontro». E non ti sei mai pentito di questa scelta? «A volte sì, ma poi penso che è comunque un “lavoro” che mi fa guadagnare senza fare niente. Soldi facili, lo so, però in certi momenti penso che se trovassi un altro lavoro, cambierei vita cercando di vivere in modo normale». Carcere o sangue: sembra questo il loro destino. E’ ciò che è capitato a Mauro (nome di fantasia), che è stato per un anno agli arresti domiciliari. Un giovane di 23 anni che ha iniziato due anni fa, lavorando come pusher e guadagnando 1.000 euro a settimana. Come e perché hai iniziato? «Prima di iniziare questo mestiere ero rapinatore e facevo uso di droghe. Mia madre un giorno, stanca di vedermi sempre in uno stato pietoso, decise di inserirmi in questo giro per darmi la possibilità di guadagnare un po’ di soldi. E poi volevo avere un mio salario, cercavo lavori diversi, ma a Torre Annunziata non c’è lavoro. Fortunatamente c’è gente che fa uso di stupefacenti, altrimenti per me non ci sarebbe stata neppure questa opportunità». Cosa pensavi mentre vendevi droghe nocive ai tuoi coetanei? «Non era facile. Venivano persone da diversi posti, ragazzi, ragazze, adulti con bambini, cosa che io non tollero, perché i figli non devono capire cosa sta comprando il padre. A volte cercavo di consigliare loro di comprare qualcosa di più leggero, ma i gusti sono gusti». Quando sei stato agli arresti domiciliari era meglio o peggio per te? «Meglio perché non rischiavo la vita. Ero a casa con la mia famiglia, ricevevo un salario, ma non potevo uscire, ero chiuso tra quattro mura, ma ora è passato. E poi in futuro spero di trovare un lavoro pulito che mi permetta di sposarmi e avere una vita tranquilla. Sai, la speranza è l’ultima a morire. Io ho sbagliato, ma, come me, tanti giovani vorrebbero avere un lavoro onesto e restare nella loro città. Ma questo non ci viene concesso». Alla domanda “Che destino vorresti per i tuoi figli?” entrambi i giovani intervistati hanno risposto: “Tutto quello che non ho avuto io e soprattutto una vita diversa da questa”. Già, perché in realtà la loro non è vita. Infatti vivono nel continuo terrore di essere arrestati o coinvolti in scontri a fuoco tra clan rivali. La paura è la loro compagna quotidiana e devono sempre guardarsi le spalle per evitare di cadere nei blitz delle forze dell’ordine. Possiamo capire le motivazioni di questa loro disperata e sciagurata scelta di vita, ma non li giustifichiamo perché all’illegalità c’è sempre una via di fuga. Anche lontano da Torre! ENZA PERNA