A cura della Redazione
Il 23 novembre 1980 si verificò un violento terremoto che sconvolse la Campania ed il sud Italia. Ricostruiamo quella immane tragedia grazie ad un servizio di Vincenzo Marasco pubblicato lo scorso anno sulle pagine di TorreSette. Con queste poche righe vogliamo commemorare le migliaia di vittime del tremendo terremoto che spezzò in due il meridione d’Italia il 23 novembre 1980. Abbiamo detto poche righe, sì, perché non basterebbero pagine e pagine intere per descrivere quel tremendo disastro in tutto il suo orrore, le paure, i lutti conseguiti. Con questo, è intenzione di chi scrive precisare che l’obiettivo non è quello di rievocare gli antichi fantasmi legati a quei terribili momenti, alla conseguente mal gestione della crisi umanitaria scaturita in seguito al dramma. L’intento è quello di far nascere nel lettore un attimo di riflessione, un sentito ricordo, in particolar modo, per le 2.998 vite spezzate durante quei 90 interminabili secondi. Era una domenica sera di novembre, le case si apprestavano a riaccogliere le loro genti che rientravano dalla passeggiata del dì di festa. Qualcun altro, invece, ancora si intratteneva presso chiese per attendere il termine delle celebrazioni serali. All’improvviso, si sentì un forte boato. Il buio e le lancette degli orologi dei campanili si fermarono simultaneamente sulle 19 e 35, poi più nulla. Due minuti dopo, una vasta regione, a cavallo tra la Campania, la Basilicata e la Puglia, non esisteva più. L’Irpinia, i suoi insediamenti urbani, per lo più inerpicati tra i monti che segnano la “colonna vertebrale” del nostro meridione, in un frangente venne rasa al suolo. Una scossa di 9-10 gradi della scala Mercalli, di magnitudo pari a 6,8-6,9 della scala Richter, si era manifestata in una delle aree più povere d’Italia. Lioni, Sant’Angelo dei Lombradi, Calabritto, Conza della Campania, Teora, San Mango sul Calore, comuni prossimi all’epicentro, e una moltitudine di piccoli centri vennero ridotti in un ammasso di macerie, in più dei casi, scivolate a valle da quei cucuzzuli di montagne lì dove l’uomo si era insediato fin dalla notte dei tempi. Laviano, un altro piccolo comune prossimo all’epicentro, venne completamente cancellato. Un quinto della sua popolazione - 300 abitanti su 1.500 - perì nella tragedia. A San Mango sul Calore, sotto la sferzata della prima scossa, anche le campane bronzee della chiesa patronale vennero spaccate come se fatte di terracotta. A Balvano, nel potentino, il crollo della chiesa del paese causò la morte di 77 persone, di cui 66 bambini e adolescenti intrattenutisi per la messa della domenica sera. E il terremoto, dagli irti colli irpini e della Lucania, come una sciabolata, si estese fin sulle coste pugliesi e campane. Ovviamente la distruzione non fu della stessa portata di quella avvenuta nelle aree prossime all’epicentro, ma le paure, i danni e i lutti ci furono ugualmente. Il danno più ingente, in vite umane, per quanto riguarda i centri delle coste campane, lo ebbe Napoli. Nel quartiere di Poggioreale, il crollo di un vecchio palazzo in via Stadera fu causa del decesso di 52 persone. Anche Torre Annunziata subì ingenti danni. La città contò un’unica vittima, a causa di un infarto, e 51 feriti. Si calcolò nei giorni seguenti al sisma che circa il 4 per cento delle abitazioni torresi risultarono distrutte e circa 110 edifici ne vennero fuori parzialmente crollati. Continuando con la conta dei danni, nella totalità, 850 edifici risultarono gravemente lesionati di cui 270 dichiarati inagibili. La maggior parte dei danni si ebbero nella zona sud della città, in quel tessuto urbano abitato per lo più da povere famiglie. Il Quadrilatero delle Carceri, già seriamente danneggiato dalle conseguenze dello scoppio dei carri ferroviari, carichi di munizionamento alleato, avvenuto il 21 gennaio 1946, subì un ulteriore duro colpo. In un caos generale, di informazioni, di raggiungimento delle località colpite, tardò nell’immediato l’opera di soccorso. Il giorno 26 novembre, “Il Mattino” di Napoli, focalizzata la catastrofica situazione in atto, gridò, a caratteri cubitali, alla Nazione intera: “FATE PRESTO, per salvare chi è ancora in vita, per aiutare chi non ha più nulla!”. Mentre le forze dello Stato, i migliaia di volontari accorsi da ogni parte d’Italia, iniziavano la loro opera di soccorso, concentrandosi per lo più lungo i monti dell’avellinese e del potentino, a Torre Annunziata a prestare aiuto accorsero i militari di stanza presso lo Spolettificio che assicurarono il montaggio e l’allestimento dei primi campi di accoglienza per i senza tetto, i quali avevano occupato, per protestare contro il ritardo dei primi aiuti, tutte le scuole locali. Scrivendo mi sovviene un mio personale ricordo: “anche se in quel preciso istante ero ancora molto piccolo, ho sempre avuto vivo in mente il ricordo di quel terribile attimo che seguì allo spensierato momento familiare legato ai riti della domenica. Quella sera eravamo “abbascio ‘o Carminiello”, a casa di parenti. Tutto ad un tratto sovvenne il buio, poi, il “fuja fuja”. Io rimasi solo in casa. Raggiunta, a carponi, la porta venni prelevato di forza per un braccio dallo zio che, accortosi che non ero fuggito con loro, era ritornato indietro a prendermi, contro la corrente di un fiume in piena di gente che si lanciava forsennatamente giù per le scale dello stabile. La mamma era terrorizzata, ma si rassicurò vedendomi sbucare sulle spalle dello zio dal portone della palazzina. Il pensiero di papà fu la nostra casa in Vico Gelso, alla Pruvulera. Lasciatici negli spazi aperti del parco antistante la casa degli zii, egli scappò di corsa verso casa per accertarsi che il palazzo avesse retto alla scossa. Ritornò dopo poco: l’antico palazzo, incastonato al centro del vicolo, nella colonna che suddivide il “nostro vicolo” da Vico Asilo Infantile, risultò ancora in piedi. Dopo alcuni giorni passati all’addiaccio, fatto ritorno a casa trovammo le tele delle “carose” (i soffitti a volta) crollate sul pavimento e il televisore schiantato al suolo. Ritornando alla città, alle prime opere di soccorso dei militari della Fabbrica d’Armi, ben presto si unirono i volontari delle associazioni locali tra cui anche quelli dell’Archeoclub che si impegnarono per la distribuzione di viveri e coperte per gli sfollati. A provvedere alla carenza di viveri in città, diedero man forte anche gli stabilimenti della Dalmine, Deriver e Ciba-Fervet che misero a disposizione le loro mense aziendali. Messa in moto la macchina dei soccorsi, gli aiuti, sia in uomini che in tecnologie, mezzi ed economici, arrivarono da ogni parte del mondo. L’Arabia Saudita inviò 10 milioni di dollari; gli Stati Uniti 70 milioni di dollari più una compagnia di paracadutisti con relativi mezzi aerei; la Francia partecipò alle operazioni di salvataggio con équipe specializzate per il recupero dei sopravvissuti ancora intrappolati tra le macerie; gli svizzeri parteciparono con squadre cinofile e due elicotteri da soccorso alpino. Altri importanti soccorsi arrivarono dalla Germania. Quest’ultima inviò ospedali da campo, militari, medici, tecnici, volontari e cani da salvataggio. Tra i Paesi che inviarono aiuti figuravano anche l’Iraq, la Jugoslavia e l’Algeria. Una prima stima dei danni causati dal sisma, stilata dalla Corte dei Conti, venne quantificata in circa 8.000 miliardi delle vecchie lire (circa 4 miliardi di euro), fino a superare, nel 2000, i 60.000 miliardi di lire, cifra pari a circa 30 miliardi di euro. Furono ben 687 i Comuni tra Campania, Basilicata e Puglia ad essere colpiti dal terremoto, 70 vennero dichiarati “disastrati” e circa 200 gravemente danneggiati. In tutta l’immensità della tragedia porgiamo un pensiero alle sue 2.998 vittime. VINCENZO MARASCO