A cura della Redazione
Torre Annunziata commemorerà per la 190esima volta l’evento miracoloso del 22 ottobre del 1822, che salvò la città dalla furia devastatrice del Vesuvio. Se riflettiamo bene è passato tanto tempo da quel miracolo. Nonostante tutte le polemiche e le critiche che hanno accompagnato l’organizzazione dei festeggiamenti di quest’anno, sobri e austeri, le celebrazioni serviranno comunque a far trascorrere alla cittadinanza torrese qualche attimo lontano dai problemi. Il popolo sano lo merita, almeno per levarsi l’onta, un giorno l’anno, di una città devastata da anni di incuria politica e degrado sociale che gli hanno assegnato l’antipatico “nomuncolo” di Forte Apache. Ci mancava solo quest’altro flagello. Sono trascorsi dunque 190 anni eppure, per un attimo, tutto ridiventa uguale. Qualcuno, in maniera blasfema, o solo per divertimento, potrebbe anche pensare ad un momento di monotonia collettiva che si ripete: sbaglia. La monotonia collettiva di un evento non è altro che il riproporsi della tradizione. Torre Annunziata, benché non si dica o poco si pensa, ha una sua grande tradizione: mariana e poi marinara. Lo dice il suo stesso nome: Torre Annunziata, in quanto essa è dedita al culto della Madonna e non di altro. Quel Forte Apache che qualcuno, provocatoriamente, vuole per forza inculcarci non ci appartiene, ma è frutto dell’indole della globalizzazione che ha tracimato coinvolgendo anche i più cari toponimi. Tornando al sano principio della tradizione, essa nasce poprio dal forte legame tra il divino e il cittadino torrese. L’arrivo della Sacra Icona bruna, ‘a zingarella, dal mare testimonia inoltre la particolare affinità elettiva con i nostri pescatori, i figli del mare, quei figli che con tanto amore, per secoli, hanno voluto curare quella magnifica opera che il mare gli regalò. Questo fino a quando il clero locale, dopo l’ennesima dimostrazione d’amore riservata al popolo da parte della Madonna della Neve, non decise di dedicargli un luogo in quel tempio, la Basilica di piazza Giovanni XXIII della Pace, dove è sempre stata collocata al fianco della Vergine dell’Annunziata, e questo non lo asserisco io ma lo dicono le “carte”. E fu così che, per “verba memoria”, la Vergine bruna, mentre un’intera città era frastornata dai boati e dai rimurgini del “mostro”, chiamò a sè i figli suoi per essere portata al cospetto del vulcano. Vinse. Trionfò la fede, vinsero gli animi degli impauriti ma ferventi pescatori, che seguirono il volere della loro Madre. Vinsero coloro che credettero. Dopo ben 190 anni, in un tempo di profonda crisi, morale e sociale, si rischia di indebolire quel credo d’amore. Non perché il pescatore non vorrebbe più portare in spalla la sua Madre, ma perché si pensa al valore materiale dell’evento: il vile danaro. Il danaro è fredda globalizzazione, lo stiamo subendo oggi più che mai. Non permettiamo che la sua freddezza ci privi di quel calore che la nostra Madre celeste ci induce durante la sua passeggiata annuale per le strade di quella città che, in taluni casi, è troppo assopita. Dopo 190 anni invochiamo ancora una volta Maria della Neve, pregandola di affrancarci dai flagelli contemporanei che inducono la nostra città alla miseria d’animo e di pensiero. Buon 22 ottobre.