A cura della Redazione
Da giorni si parla del rischio dei crolli del costone di Capo Oncino, che mette in serie difficoltà i bagnanti che usufruiscono della piccola spiaggetta artificiale sottostante. E’ inutile dire che lo sfaldamento della falesia vulcanica è un’azione erosiva del tempo e degli agenti atmosferici inevitabile. Tanto per avere un’idea chiara sull’antichità della falesia di Capo Oncino - termine più consono in termini geologici - e sulla sua formazione, per altro fragile nel suo contesto compositivo, dobbiamo ritornare indietro nel tempo fino ad epoche protostoriche, non classificate, tempo in cui si sono sedimentate le basi su cui poi si è innalzato il complesso vulcanico del Somma-Vesuvio. Ultimamente, uno studio condotto dal dott. Giovanni Di Maio, geologo che contribuisce al progetto statunitense “Oplontis Project”, stabilisce con precisione quanto prima abbiamo asserito e che, al contrario di quanto si pensasse, ciò che si è sedimentato “solo” nel 79 d. C. si trova in realtà qualche metro più in alto, dove poggiano le stratigrafie piroclastiche della terribile eruzione del 472, definita come eruzione di Pollena. In quest’area si deposero strati di materiali da caduta per ben 12-13 metri di spessore, in alcuni punti anche di 20, delle eruzioni medievali e dell’ultima eruzione sub-pliniana risalente al dicembre 1631. Oltre queste date, vi troviamo sedimentazioni minime. In poche parole, Capo Oncino, come per altro tutta la falesia che si intravede percorrendo il litorale oplontino, fino alla prossimità della Chiesa dello Spirito Santo, è un libro aperto di storia geologica della nostra terra. Anche se il naturale agire della natura prevede la sua lenta e inesorabile distruzione e modellatura, anche a scapito dell’incolumità umana, e questo è solo da ritenersi un danno “collaterale” ed evitabilissimo, e sembra piuttosto giusto preservare ciò che il tempo ci ha regalato. L’opera umana, che in un senso ha contriubuito alla distruzione, questo lo testimoniano le continue opere edilizie messe in essere lì dove oggi notiamo la cementificazione della costiera oplontina, ha, per l’altro verso, almeno per la punta più estrema della lingua vulcanica in oggetto, rallentato l’opera di erosione apponendo il frangiflutto che è peraltro fautore della spiaggetta oggi tanto cara ai bagnanti che usufruiscono di quell’area. Allora diciamo anche che l’opera dell’uomo deve indirizzarsi senza alcun dubbio alla conservazione di questo tesoro stratigrafico, anche in barba alle ben note leggi della natura che, inesorabili, ne prevedono il lento sfaldamento. VINCENZO MARASCO Presidente Centro Studi Storici Nicolò d’Alagno (dal settimanale TorreSette del 15 giugno 2012)